POMPEI (NA) Come vivevano nell’antica città schiavi e ceti subalterni

Articolo tratto da Food & Territorio di Mario Cardone
I modi di vivere della Pompei minore composta da schiavi e ceti subalterni
Gli scavi archeologici di Pompei sono famosi prevalentemente per l’urbanistica privata, realizzata secondo il modello della casa romana che si è modificato nel corso del tempo.
I turisti che arrivano da tutto il mondo per visitarli si soffermano prevalentemente presso le più famose domus, appartenute a personaggi di successo nella scalata sociale, o che si fregiavano, all’epoca, di parentele o amicizie influenti tra i notabili romani.
Le case più antiche erano state abitate a famiglie di antica origine osco – sannita radicate sul territorio.
Le dimore signorili del paesaggio urbano di Pompei all’epoca dell’eruzione del 79 d.C. sono di grandi dimensioni ed articolate in una pianta convenzionale (ingresso, atrio, tablinio, peristilio, cubiculi e triclini).
Prive di decorazioni esterne (a parte le iscrizioni elettorali) risultano affrescate a colori vivaci all’interno. Le famiglie meno abbienti vivevano in case più piccole.
Nell’Ager pompeiano si trovano ville d’otium dalle funzioni prevalentemente residenziali e dotate di posizione panoramica, le ville rustiche, invece si presentano a pianta semplice e articolata intorno ad un porticato.
Per gli archeologi, investigare le case di Pompei ed i reperti all’interno, di varia natura consente l’acquisizione di notizie (dirette o indirette) riguardo al proprietario: il suo stile di vita e la composizione della sua famiglia nei diversi gradi di parentela oltre ai livelli sociali dei vari membri, considerato che ne facevano parte anche gli schiavi e i liberti. La popolazione servile di Pompei se viveva nella stessa villa, o edificio privato del dominus, veniva relegata in ambiti separati e di tenore modesto e degradato. Gli schiavi servivano nelle case e negli opifici nelle mansioni più dure.
L’arredo di due stanze (rilevato col metodo dei calchi dalle impronte nella cenere eruttiva) abitate da schiavi di una villa di Civita Giuliana, poco fuori le mura dell’antica Pompei, disegna il quadro esistenziale tipico della precarietà generalmente riservata a tutto un ceto subalterno pompeiano anche se il trattamento cambiava da caso a cado e graduato sulla base ruoli assegnati nella rete gerarchica basate sulle mansioni lavorative e di controllo su altri di pari status ma più disgraziati.
E’ stato osservato, sulla base delle evidenze, che il dominus premiava i più fedeli con la concessione di piccoli privilegi nell’ambito dell’ospitalità concessa (rudimentali arredi nella stanza dormitorio e comodità del giaciglio). Veniva di regola instaurato una sorta di “caporalato primordiale” che prevedeva la gerarchia delle funzioni, collegata ai trattamenti preferenziali, finalizzati ai controlli interni (schiavo su schiavo) sulla base delle valutazioni del padrone.
Sulle voci e le tracce dell’altra Pompeii il Parco Archeologico di Pompei ha dedicato prima un’apposita mostra e, recentemente un convegno internazionale.
“Sappiamo che i proprietari usavano diversi privilegi, come quello di formare una famiglia per legare alcuni schiavi più strettamente alla villa, anche per averli come alleati nel sorvegliare gli altri”. Ha spiegato il direttore del Parco Archeologico di Pompei, Gabriel Zuchtriegel, che ha riferito nella casa-fattoria di Civita Giuliana (diversamente da quella di Rustio Vero) non sono state trovate grate, lucchetti e ceppi.
Per l’allestimento della mostra “L’altra Pompei: vite comuni all’ombra del Vesuvio”, inaugurata nel 2023 nella Palestra Grande di Pompei sono risultati utili i reperti e gli approfondimenti sull’attività produttiva di un panificio, annesso insieme ad una lavanderia ad casa del Regio IX appartenuta a Rustio Vero. In essa il lavoro forzato degli schiavi, insieme a quello degli asini, veniva utilizzare per far girare la macina allo scopo di produrre la farina necessaria alla panificazione.
In quella domus che aveva spazi adibiti alla tintura e lavaggio dei panni e alla panificazione la mano d’opera era tenuta prigioniera, insieme agli asini, dentro un ambiente angusto e senza affaccio esterno. Difatti la luce vi entrava attraverso delle grate di ferro montate su finestrelle.
Il movimento della macina dipendeva da una rudimentale “catena di fabbrica” azionata con intagli nel pavimento che orientavano il percorso circolare dell’asino ad occhi bendati che faceva girare la macina per ore, ad occhi bendati, lo accompagnava uno schiavo in catene che spingeva la mola e allo stesso tempo incitava l’animale e controllava la macinatura del grano che aggiungeva progressivamente, prelevando la farina prodotta di volta in volta.
L’impianto è emerso nel corso della ristrutturazione di una casa del Regio IX suddivisa in un settore residenziale affrescato con dipinti di IV stile, ed un settore produttivo, destinato in parte alla panificazione in un altro alla lavanderia. In un altro ambiente della stessa casa sono stati trovati 3 scheletri. La scoperta rappresenta una prova evidente del lavoro massacrante che competeva ad esseri umani ed animali degli animali degli antichi mulini-panifici di Pompei.
Il quadro di vita infernale riservato ad esseri umani e animali impiegati nella produzione del pane senza pietà né dignità alcun da parte del padrone è anche supportato dall’autorevole fonte letteraria delle Metamorfosi di Apuleio, vissuto nel II secolo d.C. In esse viene dettagliatamente descritta l’esperienza subita del protagonista, Lucio, trasformato in asino e venduto a un mugnaio che lo attaccò alla macina.
E’ risultato evidente dall’esame della pianta della casa-opificio appartenuta ad un personaggio che ha dimostrato abilità nella carriera politica, abbinata alla produzione del pane a bassi costi, grazie allo sfruttamento disumano degli schiavi. Le evidenze della scoperta dimostrano che l’impianto produttivo della casa-panificio era privo di accessi diretti dall’esterno perché l’unica sua uscita dà sull’atrio. In questo modo veniva impedita a libera uscita dall’impianto di produzione del pane.
In conclusione il padrone era il dominus assoluto e trattava la popolazione servile della sua casa come mezzi di produzione. La privazione di ogni forma di fiducia da parte del padrone sul servo ne attestava il dominio totale e incondizionato che esercitava senza pietà e si manifestava nella più brutale violenza, evidenziata dai pochi punti luce con grate di ferro degli alloggi.
Le testimonianze acquisite si integrano nelle precedenti conoscenze sulla dura vita quotidiana della maggioranza del popolo pompeiano (come altrove a quei tempi) che é stata raccontata con una mostra inaugurata il 15 dicembre 2023.
li direttore del Parco Archeologico di Pompei, Gabriel Zuchtriegel, ha spiegato che si tratta di ” spazi che ci aiutano anche a capire perché c’era chi riteneva necessario cambiare quel mondo e perché, negli stessi anni, un membro di un piccolo gruppo religioso di nome Paolo, poi santificato, scrisse che “è meglio essere tutti servi douloi”, che vuol dire “schiavi”, ma non di un padrone terrestre, bensì di uno celeste».

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